Si è; o non si è.

22 05 2015

Avrai capito – o forse no, può esser presunzione questa mia pretesa d’averti trasmesso qualcosa, qualcosa più di un discorso convincente: un segno, che sveli un significato ulteriore, una guida per il tuo intuito col quale appropriarti di certe mie ragioni nascoste.

Avrai capito, adesso, mentre grandina un tramonto casuale nelle nostre esitazioni celate dalla libidine

e tu mi racconti che sarà tutto diverso questa volta che lo senti anche tu lo stesso canto che anima i miei giorni.

Avrò capito il tuo sguardo salato di ieri, di domani? Sarò stata capace di amarti per le inquadrature spontanee, per la tua scelta di metterle in fila secondo certi schemi?

E’ tutto un equivoco, l’odio, l’amore ci si abbandona per divergenze stilistiche – ma lascia che la mia voce ti innamori ancora, non dire niente mentre i fenicotteri si appoggiano alle nostre miserie e ridi nelle mie guance nelle insicurezze del mio cuore;

parlami del vento e lascia che la trama si sveli pian piano,

e il nostro amore sia sapiente montaggio, sappia amalgamare le scene fino a farne un’opera compiuta, poiché questo è l’amore : sapersi raccontare la storia che dia un senso ad ogni quadro –

ti ascolto, raccontami questa storia, lascia che spiova, piano, un poco alla volta.





Nelle giornate di sole, nelle notizie migliori, nei successi e nelle gioie

22 10 2014

La nostra condanna non ha scadenze
ergastolo di rosa e gelsomino.
Per tutta la vita avremo lacrime da intrecciare ai sorrisi,
come Penelope tesseremo l’incanto, la meraviglia e la nostalgia
fili di trama impalpabile
tra la città e l’aria tersa del cielo.

La nostra condanna fa più male d’autunno
in corso Vittorio
dentro a un’ora di fresco,
nelle tue scarpe larghe danzano le mie caviglie
una polka di sospiri.

La nostra condanna è figlia della luce
brilla danzatrice
nel sole di ciascun singolo sorriso dei nostri

– quei sorrisi che non sai spiegarli, quando te ne chiedono il conto,
così luminosi che quasi danno noia,
quei sorrisi che sempre più spesso metto in freezer
in attesa del nostro incontro –

ed è lenta a scontarsi, come tutta una vita
la nostra condanna va pagata tutta, pazientemente

a testa alta;

la nostra condanna è la più dolce del mondo,
è la gioia di vivere:
senza poterne condividere con te.





Piano, in segreto

29 07 2012

Ci sono sentimenti fatti di stelle e foglie profumate. Non hanno definizione, se non la cerchi. Puoi berteli tutti in una sera o distillarli durante il giorno, ti riempiono gli zigomi di sorrisi e le attese di pensieri.
Ci sono notti che non sanno finire, che continuano a suonare dentro ai sogni e al mattino ti svegli e le ritrovi intatte, dietro le ciglia si sono soltanto distese un poco per poi tornare reali nella luce del giorno. Non servono lustrini nè birre, in quelle notti, soltanto leggerezza.
Ci sono paure che bussano quando meno te l’aspetti: accendi la radio e la morte di John Lord di colpo ti pugnala al costato con cattiveria, pronta a rievocare quel terrore di perdita che sei così brava a nasconderti tra blues e torte. Sa di sudore e di olio di mandorle, quella paura. Ma la lasci fluire, quasi come se fosse una sorella amata e attesa: ti rende umana e va attraversata fino in fondo.
Ci sono accordi che non hanno un nome, sul manico della mia chitarra. Sono i miei preferiti. Li scelgo soltanto perchè il loro suono contiene pezzi del mio cuore. Cullano l’orecchio come storie ricche di colpi di scena. Li metto in fila a caso, senza domandarmi cosa sto facendo, e la vita diventa più lieve da portare.
Ci sono ciocche che non sanno stare come vorresti, non sapranno farlo mai. Scivolano sul collo bastarde e impertinenti, come se dovessero sfidare la volontà di ordine che c’è nelle mie mani e nella mia spazzola. Non voglio domarle, le lascio libere di decidere chi sono stamattina. 
Ci sono frasi che pensarle è meglio che pronunciarle, perchè si lasciano gustare sulla punta della lingua come un dolce al cioccolato e non feriscono nessuno. 
Ci sono occhi che sanno cosa pensi, ma preferiscono non fare domande. Non hanno bisogno di conferme. Mia madre ha quel genere di occhi fatti per abbracciare, sempre pronti al pianto e alle risa. Persino mentre dorme ne lascia un pezzo a vista, giusto un filo di bianco  che resta fuori dalla protezione della palpebra e sfugge alle ciglia. Come se non potesse mai dormire fino in fondo, come se ci fosse sempre qualche frammento di vita a cui aggrapparsi, “è una giostra tutto quanto, tu resta in sella”. Ho ereditato il suo sonno tortuoso e infatti non sono capace di chiudere davvero gli occhi, non mentre dormo. 
Ci sono sogni che implacabili arrivano alle quattro del mattino a svegliarmi di colpo. Non smetterò di lottare con questi fantasmi, quasi  li amo per la loro tenacia che tempra la mia. 
Ci sono canzoni di De Andrè che contengono la spiegazione per tutti i moti del mio cuore. Va ascoltato con parsimonia, per non perdersi nelle pieghe dell’anima.
E poi anche vestiti di seta e di rugiada, la mia prima volta intrappolata tra le quattro e le cinque di un mattino di febbraio tra l’orologio elettronico e la testiera del letto, il colore della realtà, i sentimenti di disgusto e ribrezzo di fronte alle cose futili. La consistenza reale delle labbra, i ragionamenti e i sogni, il respiro affannato dall’asma. Ogni ritardo.
C’è infine un pizzico di follia, quella che guida le azioni nel corso di un giorno, i gesti in una danza e la scelta delle strade da percorrere e di quelle da abbandonare. Una pazzia che si mescola all’etica senza negarla, al contrario, purificandola fino al midollo dalle imperfezioni del tempo.

In un silenzio c’è tutto questo. Ecco perchè è un lusso che si può porre soltanto nelle mani di pochi , quelli con cui non serve protezione. E’ talmente importante, scegliere con chi tacere. 





Caffeina

23 04 2012

E’ soltanto il quarto, oggi. Lo bevo lentamente, ogni sorso è prezioso. Son già le cinque, per oggi sarà l’ultimo. Il mio corpo vuole così, sono stanca di queste palpitazioni incessanti. Sono uscita di casa senza mascara, è ora di essere me stessa. 

Non riesco a contenermi e tamburello con le dita sul piano di legno della cucina. Non ci meritavamo questa tortura. Siamo quattro anime in pena, strette nei nostri cappotti ghiacciati – i miei jeans sanno di sangue – non mi interessa niente della televisione – non so correre e ho i tacchi e non assomiglio a queste ragazze neanche un po’. Tu lo sai. Prometti presenze che non sei in grado di garantire. Ti guardo partire e le tue parole non significano più niente, mi cascano addosso come gocce di una pioggia avvelenata, ho le orecchie sature di rabbia e lamenti perchè vivo in una casa di dolore e tu non assomigli alla gioia nemmeno da lontano. Persino quei rari momenti di quiete, in cui ci mettiamo a guardare cartoni nel lettone, bruciano di lacrime represse: ho paura di non poter più vivere la mia famiglia in questo modo, sento il ticchettio dell’orologio martellarmi i sorrisi come un ghigno, Orazio aveva fottutamente ragione. Tu che ne sai di tutto questo, dannazione.

Venaria non sa di te. Ha un odore diverso, nuovo, che non posso definire. Ho paura a dargli un nome. Adesso non è il momento. Sarebbe un errore. Eppure ci sono sorrisi notturni che tu non ne hai idea, e non ti appartengono, e non sanno nemmeno di mare o di passato. 

C’era una volta una macchinetta del caffè. Io tremavo già in quell’istante, cazzo. 





Apologia dell’indecisione

7 12 2011

L’indecisione: una malattia? Chi la conosce sa quanto questo sentimento possa imbavagliare e frenare i migliori propositi, rimandando costantemente le scelte importanti e condannando la persona dubbiosa a un precariato emotivo spesso duraturo. 

Stare nell’incertezza logora i nervi, è vero: eppure credo sia una vocazione. La mia, quantomeno. Non sono assolutamente intenzionata a diventare determinata nel perseguire le mie scelte. Preferisco essere costantemente aperta alle novità, ai cambiamenti di opinione, agli imprevisti e alle sorprese. Se all’improvviso smettessi di considerare tutti i pro e i contro e scegliessi d’istinto probabilmente sarei più serena e meno isterica. Le certezze fanno bene al cuore, fanno sentire al sicuro e annientano la paura di sbagliare. Credo però che rinunciare all’indecisione rischi di far perdere di vista qualcosa di epocale. Quasi sempre ciò che è davvero importante non è una scelta: spesso crediamo di desiderare qualcosa, poi mentre cerchiamo di realizzare i nostri obiettivi ci imbattiamo in qualcos’altro che scopriamo essere il nostro destino. O almeno, per me è sempre stato così. Le parti migliori della mia vita mi sono capitate per caso e sono frutto di inconsapevoli curiosità. 

Mi chiedono spesso perchè non prendo delle decisioni nette. Ho sempre pensato di essere biologicamente incapace a decidere: mi perdo nel considerare tutti gli aspetti di ogni alternativa e non riesco a rifiutare nettamente nessuna posizione. Riflettendoci meglio, però, la mia è proprio una scelta consapevole. Io NON VOGLIO scelte nette. Lascio che la vita faccia il suo corso attraversandola tutta con le mie contraddizioni permanenti perchè non penso tocchi a me decidere. Sono una fatalista, sì. Credo sia il solo modo di lasciare la porta aperta agli accadimenti casuali.

Non penso sia un caso, il fatto che molte religioni parlano di karma, provvidenza, destino, caso. In particolare la religione in cui credo ci chiede di affidarci al progetto che Dio ha per noi. E’ anche vero che il cristianesimo enfatizza molto la questione del libero arbitrio: è il singolo a decidere se vuole salvarsi o andare all’Inferno, Dio lascia l’uomo libero di autodeterminarsi. Credo però che questo non significhi avere la presunzione di scegliere da soli la nostra strada, ma anzi, che sia tutto il contrario. Siamo liberi di scegliere se fidarci di quello che è scritto per noi, lasciandoci guidare lungo il nostro personale cammino di salvezza, o se fare tutto da soli, con la presunzione tipica di crede di potersi costruire la vita che meglio crede con le sole proprie forze.  Ecco, io questo lo rifiuto categoricamente. E pazienza se i tempi della vita sono lunghi: il mio unico impegno è quello di interiorizzare e razionalizzare quello che mi circonda per capire da che parte andare.

C’è chi capisce al volo, io non sono tra quelli: ci metto anni, mesi, settimane a prendere una strada. Ho una passione smodata per i bivii, adoro la sensazione di avere più opzioni disponibili. Mi lascio guidare.  Non sono coraggiosa, probabilmente, ma è la vita che mi sono scelta e non la cambierò. 





Gli amori migliori

21 11 2011

Gli amori migliori restano nell’aria

avvolgenti profumi di cristalli iridescenti.

Colmano i piccoli momenti di vuoto in una giornata qualsiasi:

i quattropassi verso la fermata del pullman sono costeggiati di quel che poteva essere,

quel che sarebbe è la colonna sonora di un caffè alle macchinette guardando nella tromba delle scale,

una sciarpa calda avvolge i ricordi soffusi e un tè bollente riscalda le intenzioni future.

 

Gli amori migliori non esistono, non si scontrano con la frustrazione e le meschinità del reale: sono soltanto innocue fantasie di cui bardarsi ogni volta che lo si desideri, quando fuori è troppo grigio e c’è bisogno di quella spinta verso l’infinito.

Come romanzi che si rileggono ogni tanto, così sono gli amori migliori, pronti all’uso per mescolarsi con stralci di vita vera e dare alle azioni più banali quel sapore inspiegabile di poesia. Quegli amori non feriscono, non fanno vittime collaterali, non sanno cosa sia la gelosia, sono esclusivi anche se sono infedeli, sono utopie irrealizzabili e proprio per questo sono così cari, ce li culliamo al petto come se fossero bambini e non ci stacchiamo mai. Forse non sono veri amori, proprio perchè esistono soltanto nell’anima e non possono fare male: ma non credo di voler rinunciare, ecco.





Barriere

14 11 2011

 

  • Lenny Kravitz che rockeggia fuori tempo massimo su un CD anni ’70 che però ha il difetto di essere uscito poche settimane fa.
  • Tanto trucco, troppo trucco, persino per andare a buttare la spazzatura.
  • Ballare in macchina per scacciare ogni inquietudine dalla pelle.
  • Ridere di te stessa.
  • Non rispondere al telefono quando temi che la chiamata potrebbe alterare i tuoi precari equilibri emotivi.
  • Non rispondere al telefono perchè non sai se stasera sarai in grado di uscire dalle mura di cartone in cui ti sei rinchiusa.
  • Sprecare un numero considerevole di ore a cantare canzoni che non piacerebbero a nessuno con il piglio di una Carla Bruni e un dodicesimo del suo sex appeal.
  • Comprare un push up che non indosserai mai.
  • Interrompere tutti mentre stanno parlando.
  • Smettere di ascoltare la gente per focalizzarsi su un insignificante vecchietto seduto all’angolo della strada.
  • Comprare delle orecchie di pelo rosso luccicanti per fingere una sicurezza che non ci sarà mai.

Non è anticonformismo, è una fottuta paura di qualunque cosa.

 





Contro certi stereotipi psicologici

24 10 2011

Mi è sempre piaciuto Cosmopolitan. Perchè è frizzante, pieno di fotografie? Sì, anche. Soprattutto perchè dopo aver letto due articoli su come sedurre l’uomo dei tuoi sogni, uno sui miracoli di un composto anticellulite fatto in casa a base di sale marino e, last but not least, un imperdibile servizio di decodificazione dei più comuni segnali del disinteresse maschile (con tanto di descrizione della gestualità da interpretare e di suggerimenti su come catturare l’attenzione del proprio ragazzo, magari per convincerlo a venire a quel corso di cucina che odia); ecco, dopo tutto questo dispensare facili strade verso la realizzazione personale, generalmente mi sento incoraggiata. Pronta a iniziare a fare yoga ogni mattina per avere cosce sottili, ad appoggiare la mano sulla spalla del mio uomo con delicatezza per indurlo teneramente ad assecondarmi (il che fa molto Charlotte di Sex and the city, poi). Sicura di me, insomma.

Beh, ecco, crescere è anche rendersi conto di quanto articoli del genere siano del tutto inadeguati alle vita vera. Perchè veicolano un’idea completamente sbagliata della donna e dell’uomo. I maschi sembrano essere primitivi, tutti uguali e ontologicamente incapaci di cogliere le sfumature. Noi invece siamo perennemente alla ricerca di un ideale irraggiungibile di Wonderwoman con cui dovremmo accalappiare gli altri: madre-figlia-moglie esemplare, sexy anche per scendere a buttare la spazzatura, professionalmente vincente e dinamica e sopratutto incallita partygirl sempre sulla cresta dell’onda.

Sapete cosa? Fanculo questi stereotipi. Fanculo soprattutto quelle regole di condotta che ci vengono suggerite per gestire i sentimenti in modo brillante. Vorrei fare un mio personale elenco delle massime di esperienza che ho raccolto finora, alla faccia di Cosmopolitan- Ad uso e consumo di chiunque, ma soprattutto per autoguarirmi dallo stereotipo:

  1. Non esistono regole, ma solo massime di esperienza, in amore: è un sentimento imprevedibile che si sviluppa tra due persone (o più!). Individui, quindi unici rispetto agli altri. Quello che capita a noi due non è neanche lontanamente paragonabile a cosa accade ad altri due. Che senso avrebbe confrontare?
  2. L’arte della seduzione è l’arte dell’inganno. Mi spiegate perchè dovremmo sbatterci a fingere di essere qualcuno che non siamo, lasciare che la gente si innamori di quell’involucro e poi svelarci solo in seguito per ciò che siamo davvero? Credo di non aver mai sedotto nessuno consapevolmente, usando trucchetti/sistemi o mettendo un vestito particolare. L’attrazione è inconsapevole e inspiegabile, persino un pigiama a cuoricini due taglie più grosso può risultare sexy, basta lasciarsi andare e concedersi il lusso di essere sè stesse, al di là delle convenzioni. La cosa più sexy in una donna, secondo me, è la spontaneità.
  3. Gli uomini sono capaci di emozioni forti come quelle delle donne. Le esprimono solo in modo diverso. Non sempre colgono quello che intendiamo comunicare: ma è un problema di comunicazione, appunto. Non un deficit genetico. Assolviamoli una volta per tutte dall’accusa di insensibilità generale.
  4. Non ci si trucca per sedurre qualcuno, ci si trucca per sentirsi più sicure e meno vulnerabili. L’abbigliamento, gli accessori, il make up: possono essere una prigione in cui sentirci costantemente giudicare e inadeguate rispetto alle altre, se li usiamo per essere solo sensuali. O una fantastica strada per esprimere le nostre emozioni quando non abbiamo la forza/il fegato/la voglia di esporci con le parole. Sta a noi scegliere.
  5. Più pelle scopri, meno immaginazione lasci al tuo interlocutore. Meno immaginazione vuole dire meno sogni, meno fantasie. Non siamo oggetti, siamo creature fantastiche fatte per essere idealizzate. Non sviliamoci da sole.
  6. Ci sarà sempre una più bella di te. Ma una uguale a te, mai. Coltivare la ribellione, la diversità, l’unicità e la personalità ci rende più interessanti e attraenti di quando possano fare la palestra, la dieta o un nuovo taglio di capelli.




Non bisogna avere paura di rischiare

1 09 2011

Sul momento brucia, ma sono soltanto graffi:

il tempo li cancella.

E io voglio continuare ad arrampicarmi sugli alberi.

 

 

 





Show must go on

8 07 2011

Attraversare le proprie insicurezze e poi gridare sottovoce con un movimento della bocca sommessamente nascosto da una risata ipocrita.

Dir sempre: Diamine. E anche: Dannazione.

Bere un intruglio alcolico al pompelmo senza chiedersi cosa sia e ancheggiare inconsapevolmente.

Prendere una rotonda ai 60 all’ora mentre radio Capital trasmette a tutto volume i Genesis.

Raccogliere i capelli in uno chignon di forcine e poi arrendersi alla forza di gravità e uscire di casa con una parrucca spettinata al posto della testa.

Autoconvincersi che questa volta è diversa da tutte le altre.

Schioccare la lingua.

Svuotare la borsa e buttare via tutte quelle carte di caramelle e cioccolatini.

Ripetere per l’ennesima volta al muro gli elementi caratterizzanti la fattispecie del peculato d’uso.

Pianificare nuove attività da intraprendere a settembre.

Fingere che agosto sia lontano. Che non ci sia nessuna sindrome da vuoto di senso ad accompagnare i monsoni della sera ormai consueti in questa Torino tropical.

E poi andare ai concerti da sola, fare le tre del mattino, mentire allo specchio, mentire alle madri, ridere senza riflettere, mettere lo smalto scuro alle unghie dei piedi e lasciarsi immaginare dagli sconosciuti. Nascondersi sotto stoffe drappeggiate e cantare in continuazione. Riconoscere spruzzi di greco mescolati al grasso delle biciclette e chiedersi se sia colpa del greco, questo senso di angoscia per il tempo che fugge, potrebbe essere colpa di tutte quelle ore passate a tradurre, della concezione pessimistica della storia tipica della cultura ellenica e forse persino di Orazio. Riprendere Amore e Psiche e chiedersi che razza di latino sia questo. Affogare le malinconie nel caramello liquido mescolato al gelato al caffè. Ripudiare i convenevoli. Riconoscere accenni di gattamortaggine nel proprio pressapochismo, essere stanca di tutto e viziata di tutto e insofferente a tutto.

E alla fine, tra tutte queste maschere capricciose e frivole, mandare avanti la baracca come meglio è possibile, e possibilmente senza piagnistei.

Andare avanti con lo show. Essere donna è soprattutto questo.





Fiammella

17 01 2011

Sei una luce che filtra sempre dentro,

fioca

piccola che ancora non sai parlare

e anche vecchia di quelle stanchezze disilluse

che hanno finito le attese e non s’affannano più

e sono lisce e serene.

Appena visibile da una fessura nel muro

te ne stai lì adagiato tutto scomposto,

mi fai un cenno distratto

e sorridi

perchè è un altro vento,

tu sei avanti, inesorabilmente.





“Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi” (Italo Svevo)

11 12 2010

 

La mia prossima dipendenza potrebbe essere la Desperados.





Taizè on my mind

12 06 2010

Il bagno era distante dalla baracca. Ogni volta, dopo la doccia, mi avvolgevo nell’asciugamano e mi avviavo lungo la strada, come in campeggio. La postura di una ladra, piena di vergogna stringevo al petto il beauty-case, come se fosse stato un’arma pericolosa. Dentro c’ero io, io ero nel beauty, non nel corpo grande che dondolava stupito. Quel tragitto mi faceva sentire sola: era una sensazione nuova, che ignoravo. Non mi sono mai sentita bene, sola, fino a quella settimana. Ho imparato il lusso della solitudine.

La cosa che ho amato di più, però, è stata la luce. Pregare dentro quella tenda arancione, sentire la potenza del silenzio unire il mio sentire a quello di centinaia di sconosciuti. E poi il potere della musica, mantra ripetuti in coro per lodare la luce. Quella liturgia di Risurrezione, splendida. Quando lui lesse il mio sorriso, lo compenetrò poichè lui stesso sentiva quel calore di rinascita, e mentre Gesù risorgeva un’altra volta in noi mi disse: – Sei felice.

Sì, lo ero. Ero sulla strada, ero al posto giusto. Ogni lacrima e ed ogni sorriso erano nel giusto, Lui era la via. Io dovevo solo seguirla.

E poi le colline. I fiori e l’erba. Ballare sola per onorare un defunto, piangere le lacrime che un tuo amico non riesce a piangere. Sederti sull’erba del prato, osservare dei ragazzi tedeschi cantare intorno a una chitarra e intanto mormorare i versi di Dante sottovoce: come perle per ricordare chi sei. Taizè ha cambiato ogni cosa, ha spalancato le porte del cuore, mi ha insegnato che una foto con una mano sulla spalla non è un crimine (ma che fatica, per comprendere che non è per farsi male).

E poi lui.

 

Chiaro di luna

Mi viene in mente una sera del passato.
Eravamo seduti vicini, ma non ci guardavamo. Il mio sguardo indugiava sui confini tra la strada e il marciapiedi, resi più confusi dall’oscurità. Lo evitavo: non si guarda in quel modo l’uomo di un’altra donna.
Lui non so cosa guardasse, comunque non me. Una brezza leggera increspava la pelle delle mie braccia; lui, figlio del Nord, pareva non accorgersene. Attendevamo che i nostri amici finissero di prepararsi per andare a bere qualcosa: era una sera di tarda estate, e noi eravamo stati i primi ad esser pronti. Non mi ero neppure truccata. Un silenzio come quello non mi capitava da anni, durava da almeno cinque minuti.
A un tratto, ho guardato l’ombra proiettata in terra dal palazzo di fronte al muretto su cui sedevamo. Ne ho percorso i contorni, come a riconoscerne la sagoma, e sono arrivata fino ad un punto dell’asfalto su cui quell’ombra non si stagliava più. Un fazzoletto di strada più chiaro, su cui il raggio della luna poteva sopravvivere senza essere soffocato dalle ombre dei palazzi. Ho alzato lo sguardo a raggiungere la luna: non ancora piena, non particolarmente grande, eppure così drammaticamente chiara. Sentivo il petto fremere e il respiro farsi violento, perché sentivo di amarlo. Era una cosa del tutto irrazionale, dal momento che lo conoscevo da appena sei giorni. Parlava a stento la mia lingua. E soprattutto, era l’uomo di un’altra. Una ragazza sconosciuta, bella come una stella, che mi ispirava persino simpatia nel racconto che lui ce ne faceva.
Quel raggio di luna, tuttavia, aveva rischiarato a giorno la mia anima. Avrei potuto evitare l’aggancio perfetto dei nostri sguardi nei momenti più inattesi. E avrei potuto cercare di ridere di meno con lui, di stare sola con lui il meno possibile. Ma non avrei potuto evitare la consapevolezza di quello che sentivo. Amore. In una forma strana, forse più ideale che reale. Eppure Amore era il solo termine che potesse in qualche modo descriverci.

Ricordo di essermi voltata nella sua direzione. Lui mi stava già guardando, o forse si era semplicemente voltato a causa del fruscio dei vestiti al mio movimento. I nostri occhi si sono mescolati istintivamente, come facevano troppo di frequente. La luna era lì, a illuminare la strada davanti a noi, che invece stavamo nell’ombra. Avrebbe potuto dirmi tante cose, invece forse voleva solo che smettessi di conquistarlo con i miei difetti.
– Don’t say “so” at the beginning of a sentence. It’s not polite.

E se invece avessi letto nello sguardo sbagliato? 





Montmartre è un colore del cielo

27 05 2010

Montmartre. Paris.- by ancama_99(toni).

Quando piove,  trovo che la somiglianza tra Torino e Parigi sia più evidente. Oggi piove. Le mattine di pioggia in cui dovresti studiare sono decisamente le peggiori, e forse per questo la mia voglia di Parigi è tanto forte.

C’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui le mie dita accarezzano la tastiera, lo sento. Come un disco rotto che non riesce a smettere di ripetersi, il fluire confuso delle mie sensazioni si accavalla al sottofondo musicale che sto ascoltando, senza riuscire a prendere una forma. Un po’ come i miei capelli, anarchici nel loro nuovo taglio scalato: ci sono ricascata anche stavolta. Dovrò imparare a farmi la piega, o continuare con lo chignon.

Mentre mi lego i capelli, alcune ciocche sfuggono alla crocchia. Non riesco a guardarmi allo specchio senza risentire il suono di quella risata che ho lasciato sfuggire. Così fresca, così impossibile da riavere. Eppure era inevitabile. Lei mi manca da impazzire, come potrebbe mancare un uomo che ti ha abbandonata. Benchè sia stata io ad andarmene, lei saprebbe esattamente cosa dire e cosa fare, adesso. Andremmo insieme a fare un giro per negozi, magari da Scali, dove io non riuscirei mai a trovare un paio di pantaloni che mi vadano bene. Oppure ci siederemmo sul divano a mangiare gelato guardando un film. Sì, mi manca. Mi manca soprattutto quando ho il cuore in subbuglio.

Devo passare l’aspirapolvere. Devo finire il capitolo 5. Devo mettere su l’acqua per la pasta. Devo smettere di ascoltare Lady Gaga, di mangiare gelato, di andare in giro con questa camicia da notte vecchia e logora che scivola sempre sulla spalla.

E invece non riesco nemmeno a mettere nel microonde il sacchetto dei popcorn. O a trovare il vestito per il funerale. Perchè un funerale, chicca, devo pur farlo. Forse addirittura due. E invece ho solo voglia di ballare.





Nei sogni sbagliati

12 02 2010

     “Stanotte saprò cosa sognare, e per una volta il mio sogno sarà una donna vera”, disse un passante troppo espansivo, mentre io correvo dietro all’ennesimo pullman. Ostacolata dalla scarsa libertà di movimento concessami dal mio tubino rosso,  ho raggiunto il mio 11. Aggrappata al mancorrente, ancora affannata per la corsa, mi sono distratta: senza fare abbastanza attenzione sono caduta nei miei, di sogni. Sogni ad altre latitudini. Non il deserto del passante, non le cupole di Marrakesh o di Istambul. Non la voce dei muezzin, nè il frusciare dei veli colorati nella confusione della città oppressa dall’afa. I miei sogni sono sempre freschi, illuminati da un’aurora che non sa tramontare da anni. Quello stesso cielo rosa che non ha mai abbandonato le mie fughe fantastiche; è perchè non l’ho conosciuta che dai suoi occhi freddi e distanti. Nei miei sogni, c’è ancora un cielo da dipingere, una vita non vissuta. Una dimesione che mi manca; è come l’assenza di una carezza su un piede o su un polso. Come una parte del mio corpo che nessuno accarezza mai, ogni tanto mi ricordo di quell’istinto profondo che ha radici strette nel centro di me. Una brezza fragile, scomoda, che mi scompiglia i capelli ed è tutta dentro al mio corpo: un’aria da cui non potersi riparare. Quando sarà ascoltata la sua sete?





Di un addio reso letteratura (forse)

8 01 2010
 
Il mare, eloquente e muto.
Viene un’ora, d’estate, quando il sole comincia a calare, in cui ne senti il richiamo ovunque tu sia. E’ giusto una nota di fondo, sopportabile ma costante; succede che ti colga mentre bevi qualcosa al bar, o magari durante una conversazione avvincente. Sorridi, fingi di nulla e stai un poco in silenzio, tentando di acquietare il rumore del mare dentro le orecchie.  Per un po’ decidi di fingere di non sentirlo, rimandando a un tempo migliore. Tuttavia è talmente faticoso ignorare quel suo sillabare, piatto e neutro, che ti attraversa come pervadendoti le vene. Devi ascoltarlo, arriva un punto in cui non puoi che liquidare con gentilezza i tuoi interlocutori, appoggiare sul bancone cinque euro spiegazzati – no, tenga pure il resto – andartene verso casa e precipitarti giù dallo stradone con la Vespa – l’aria è fresca a quest’ora, quasi avesse pudore della morte del sole – l’aria è fresca di rispetto mentre il sole crepa, ancora una volta – il paese scorre via più in fretta del solito, e intanto lui grida – il mare ti urla dentro e muggisce, è quasi assordante, ormai, eppure non dà alcun fastidio – un urlo di vuoto – ed ecco percepisci i primi lontani echi delle onde che si infrangono sulla riva. Hai una meta. Nell’assolata spiaggia delle sette e mezza pochi sognatori a godere di questa luce soffice: ti accolgono ignorandoti cortesemente. Grazie a Dio. E allora parcheggi la Vespa. E poi ti levi i sandali. Passi l’asfalto. E anche il marciapiedi. Tocchi con un alluce la sabbia sporca del confine tra la spiaggia e la strada, evitando i piccoli rifiuti – una cicca, ma non è ora di fumare, no. Muovi passi corti  e storti, malcerti. La sabbia è fredda e morbida, scivola contro le piante dei piedi senza confondersi con la pelle, come una coppia di amanti separati. Il silenzio lascia emergere la personalità del mare, distaccato protagonista di una piece spoglia. Ancora una volta sei qui, ad ammirarlo nella sua bellezza tonda e semplice. Non ha bisogno di colori accesi: ti avvince con il fascino della sua distanza, specie in sere come questa, leccate da un vento che fredda le cose nel piatto e fa rabbrividire le spalle scoperte. Mentre mi avvolgo in una pashimina sottile, salmone spento, punto gli occhi sul vuoto e lascio che il mio sguardo abbracci la vasta distesa.
Tutto ciò che sento è silenzio, adesso. Il silenzio del tatto, su cui le carezze della brezza scivolano inascoltate. Il silenzio fra i capelli, aquiloni impazziti senza sentimento. Il silenzio delle labbra; come proferire parola? Persino gli occhi tacciono e guardano senza vedere nulla. Il mare è confuso con il cielo, il profilo della terra si perde in quello di un nuvola. Soltanto le orecchie ancora percepiscono la voce monocorde del mare: mi culla col suo sibilo salmastro, freddo come fosse novembre.
E’ molto tempo che non parlo col mare. L’ultima sera di ogni vacanza è il mio momento sacro, in cui gli rendo grazie per avere accolto me, creatura di terra, tra i granelli di sabbia che ogni giorno hanno l’onore del suo bacio. E’ un tempo in cui siedo ad ascoltare e lascio fluire presagi dei cambiamenti, ogni anno implacabilmente  portati dall’autunno a cambiare veste agli alberi.
Adesso non so più pensare, e allora lascerò che il tuo respiro diventi il mio respiro; concedi alla mia voglia d’amore di passeggiare in silenzio sulle tue rive, come un’esule, ancora vuota di emozioni nuove e già estranea da quelle vecchie. Concedi asilo a questa ragazza scapigliata, con i piedi goffi, e al suo incedere che non abbandona la terra ma per un poco se ne discosta, cedendoti, racchiudendosi in te. Resterò qui, sulla spiaggia, a metà fra il mare e la terra, fra quello che verrà e quello che è andato. Non toccherò l’acqua, questa sera, e lascerò invecchiare di colpo le mie caviglie, tremando di passi senza passione. La mia collana verde tacerà lunga attraverso il vestito; le ciglia già odono asciutte. A domani per le lacrime, il solo sale mio sii tu, per oggi: concedimi qualche minuto di paralisi prima di morire col giorno, lasciami camminare questi ultimi passi prima della clausura, e ti prego, non chiedere perché. Respira tu per entrambi.
Piango da dentro, piango lacrime strozzate, congelate dentro agli occhi.
Raccontami una storia di sirene.
Parlami del niente.
Io ti ascolto.
 
 
 

Orecchio

con cui ascoltare

l ’eco del mare, conchiglia mi raccogli,

per caso,

sull’altra sponda dell’oceano d’aria

che ci unisce.

 

Il vuoto

separando congiunge: conchiglia mi raccogli.

 

Mi raccogli

conchiglia

trascinata dall’acqua e infine

appoggiata lì,

come addormentata sulla sabbia

alla riva del tuo pensiero.

 

Conchiglia mi raccogli

perché sono l’orecchio con cui ascolterai la nostra eco del mare,

che parla del sale, di onde salmastre,

come le lacrime che non abbiamo saputo piangere,

fra i flutti ormai sparse,

sperse.

 

Te ne sei già andato, biondo e lontano.