Caffeina

23 04 2012

E’ soltanto il quarto, oggi. Lo bevo lentamente, ogni sorso è prezioso. Son già le cinque, per oggi sarà l’ultimo. Il mio corpo vuole così, sono stanca di queste palpitazioni incessanti. Sono uscita di casa senza mascara, è ora di essere me stessa. 

Non riesco a contenermi e tamburello con le dita sul piano di legno della cucina. Non ci meritavamo questa tortura. Siamo quattro anime in pena, strette nei nostri cappotti ghiacciati – i miei jeans sanno di sangue – non mi interessa niente della televisione – non so correre e ho i tacchi e non assomiglio a queste ragazze neanche un po’. Tu lo sai. Prometti presenze che non sei in grado di garantire. Ti guardo partire e le tue parole non significano più niente, mi cascano addosso come gocce di una pioggia avvelenata, ho le orecchie sature di rabbia e lamenti perchè vivo in una casa di dolore e tu non assomigli alla gioia nemmeno da lontano. Persino quei rari momenti di quiete, in cui ci mettiamo a guardare cartoni nel lettone, bruciano di lacrime represse: ho paura di non poter più vivere la mia famiglia in questo modo, sento il ticchettio dell’orologio martellarmi i sorrisi come un ghigno, Orazio aveva fottutamente ragione. Tu che ne sai di tutto questo, dannazione.

Venaria non sa di te. Ha un odore diverso, nuovo, che non posso definire. Ho paura a dargli un nome. Adesso non è il momento. Sarebbe un errore. Eppure ci sono sorrisi notturni che tu non ne hai idea, e non ti appartengono, e non sanno nemmeno di mare o di passato. 

C’era una volta una macchinetta del caffè. Io tremavo già in quell’istante, cazzo.